Picasso e Braque

Si era svegliato presto, come spesso accadeva specialmente durante i mesi caldi. La serranda della finestra filtrava i raggi del sole già dal primo mattino e il soffitto e le pareti sembravano territori lontani visti dall’alto con le loro vite minuscole e luminescenti a macchie chiare che rapide si muovevano tra il lampadario e il bordo superiore della parete di fronte alla finestra. Sognava Casimiro, sognava ad occhi aperti nella confusione e nel sopore del caldo estivo. Come in trance, confondeva le ore, i giorni e anche il tempo; entrava e usciva da sogni e realtà senza ci fosse confine, anzi, realtà e fantasia erano fuse insieme, sfumate e aggiustate, confezionate in una bolla di sapone con mille riflessi metallici in movimento perpetuo. Ogni rumore, ogni voce, ogni fatto che il mondo reale produceva al suo intorno entrava nel sogno e vi rimaneva per un tempo indefinito acquisendo vita propria e livrea appropriata aprendo la porta di un nuovo ricordo vissuto o sognato. Ma era lo stesso, in un mondo immobile dove anche l’alternanza tra giorno e notte non era perfettamente distinguibile cosa importava se quel ricordo era reale o frutto dell’immaginazione? Ecco, un lungo respiro e di nuovo quasi un’apnea, in immersione libera nel mare dei ricordi. La stanza sparì pian piano nel chiarore della mattina lasciando spazio a nuvole chiare sotto le ali possenti di un aeroplano che in fase di virata si accingeva all’atterraggio. Madrid è una bellissima città, anche sotto il sole di luglio che non ti fa dormire se non a tardissima ora. Ecco, Casimiro era lì, al Paseo del Prado con la sua bottiglietta d’acqua e un cappellino azzurro per proteggersi dal sole del pomeriggio. Verso sud c’era la stazione Atocha e poi girato l’angolo, a qualche metro ancora di distanza dopo quel semaforo lungo, lunghissimo, c’era quel bar dove gli avrebbero servito un caffè come lo voleva lui, con miscela di almeno tre continenti. Il baretto, piccolo ma accogliente era proprio accanto al museo Reina Sofía e offriva svariati tipi di caffè e cioccolato provenienti da tutte le parti del mondo. Casimiro chiese al banco, con il suo spagnolo un po’ incerto.

―Un café con leche, por favor. Me sentaré aquí cerca.

Gli servirono un caffè buonissimo e lui rimase lì a scrivere un’ora buona, nell’atmosfera profumata di caffè e cacao e il chiacchiericcio di turisti allegri e colorati.

Quel viaggio in terra spagnola lo aveva intrapreso da solo, senza alcuna compagnia e senza una idea chiara di cosa vedere e dove andare. Casimiro passò due settimane tra Madrid e Spagna meridionale, osservando, gustando e incontrando realtà che non aveva mai visto. Fu un viaggio silenzioso il suo, non aveva alcuno con cui condividere la sorpresa, la meraviglia o semplicemente la stanchezza di un pomeriggio sotto il sole. Ma andava bene così, era sicuramente il miglior modo per scoprire e apprezzare quel mondo zuppo, intriso, profumato di arte e tradizioni antiche. A volte vagava con un pasodoble in testa e al ritmo di invisibili “castañuelas” osservava le insegne dei negozi o l’incedere di quei poliziotti buffi, con l’uniforme verde e una pistola di proporzioni gigantesche, con le scarpe nere e quel cappello con una falda alzata schiacciata sulla parte posteriore del copricapo.

Quel pomeriggio del caffè andò avanti con la visita al museo Reina Sofía, dove tra le altre bellezze dell’arte contemporanea c’era anche una grande tela di Pablo Picasso: Guernica. La sala stretta e lunga ospitava la grande tela protetta solo da un cordone rosso che manteneva i visitatori a distanza di un paio di metri e poi in fondo, una saletta piena di fotografie di Dora Maar che ritraevano Picasso durante la lavorazione di quel capolavoro. Quasi quasi era più interessante quella sequela interminabile di foto – dove si vedeva il dipinto a diversi stadi di lavorazione e diversi momenti di incertezza dell’artista che disegnava e correggeva il suo lavoro – che la stessa monumentale tela a toni di grigio che ormai famosissima non offriva alcuna sorpresa ma solo l’emozione di essere lì, al cospetto di Picasso. E poi di nuovo Picasso, Braque, Picasso e Braque, Picassobraque in mescola indistinguibile: quei quadri suonavano da soli, come sassofoni e clarinetti jazz e tra un quadro e l’altro, tutti appesi in fila sulla lunga parete pareva che ci fosse una batteria rullando un charleston che diventava a tratti jazz giallo intermittente e pasodoble rosso sangue tuffato nel caffè nero e bollente con quel cubetto di ghiaccio che fa crack all’istante.

Il ricordo di quella sala del museo Reina Sofia si fuse con il profumo del latte caldo e la fragranza dei biscotti di pasticceria; svanì dolcemente in una bolla del colore del tardo pomeriggio madrileno con una immagine de La Mallorquina a Puerta del Sol, con le sue vetrine invitanti e il profumo di zucchero e cannella. Già, l’immagine svanì insieme alla trance del sogno lasciando Casimiro nella luce del mattino, con lo stomaco gorgheggiante in attesa della colazione ma sempre lì in quel letto d’ospedale, tra infermieri che andavano e venivano e misuravano e proteggevano e sussurravano eleganti e docili come ballerine del Bol’šoj.


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